mercoledì 23 marzo 2011

Card. Ratzinger (2004): Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la Sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’Amore che ama “sino alla fine”

Grazie allo straordinario lavoro della nostra Gemma leggiamo questo brano davvero straordinario:

In cammino verso Gesù Cristo

Parte prima

In cammino verso Gesù

2. Ferito dal dardo della bellezza

La croce e la nuova “Estetica” della fede

Ogni anno, nella liturgia delle ore del tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che s’ incontra nei vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio.
Qui, una accanto all’altra, ricorrono due antifone – una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana santa – che introducono il salmo 44, offrendone però una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il salmo che descrive le nozze del re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nella Quaresima il salmo ha come cornice la medesima antifona che viene utilizzata per tutto il resto dell’anno liturgico; si tratta del terzo versetto che recita: “Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, /sulle tue labbra è diffusa la grazia”.

La Chiesa, ovviamente, legge questo salmo come espressione poetica/profetica del rapporto speciale di Cristo con la sua Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra significa l’intima bellezza della sua parola, significa la gloria del suo annuncio.

Non è dunque la bellezza esteriore della figura del Redentore a essere glorificata: ciò che si manifesta in lui è invece la bellezza della Verità, la bellezza stessa di Dio che ci attira e nel contempo ci procura la ferita dell’Amore, l’eros (la “sacra passione”) che ci fa correre, assieme alla Chiesa e nella Chiesa/Sposa, incontro all’Amore che ci chiama.

Ma il lunedì della Settimana santa la Chiesa cambia l’antifona, invitandoci a leggere il medesimo salmo alla luce di Is 53,2: “Non ha bellezza né apparenza; / l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore”.

Come si conciliano le due visioni?

Il “più bello” tra i figli degli uomini è tanto misero d’aspetto al punto che nemmeno lo si vuol vedere. Pilato lo mostra alla folla: Ecce homo! Cerca di suscitare un po’ di pietà verso quell’essere maltrattato e percosso, ormai privo di ogni esteriore bellezza.

Sant’Agostino – che nella sua giovinezza aveva scritto un’operetta (andata perduta) “sul bello e sull’utile”, e che era un cultore del bello nel linguaggio, nella musica e nelle arti figurative – aveva colto acutamente questo paradosso, intuendo che la raffinata filosofia greca del bello veniva qui non soltanto accantonata, bensì posta drammaticamente e radicalmente in discussione: cos’è il bello? / cos’è la bellezza?

Riferendosi al contenuto dei due testi citati, Agostino parla di “due trombe” che suonano in contrasto tra loro, eppure i loro suoni provengono da un medesimo soffio, dal medesimo Spirito. Nel paradosso egli vede contrapposizione, ma non contraddizione. Unico infatti è lo Spirito che suscita la Scrittura, traendone però differenti note e ponendoci, proprio in questo modo, di fronte alla perfezione della Bellezza, della Verità in sé. Il testo isaiano ha indotto non pochi Padri a domandarsi se Cristo fosse bello oppure no. Ma sotto questo interrogativo cova una questione ben più decisiva: cioè, se la bellezza sia anche vera, o non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla verità profonda del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che proprio nelle sembianze alterate del Crocifisso si è manifestato come amore “sino alla fine” (GV 13,1), sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza; ma nel Cristo sofferente apprende anche che la bellezza della verità include offesa , dolore e persino l’oscuro mistero della morte. Bellezza e verità possono rinvenirsi soltanto nell’accettazione del dolore, e non nel suo rifiuto.

Una certa coscienza del fatto che alla bellezza non è estraneo il dolore, è riscontrabile già nel mondo greco. Nel dialogo platonico Fedro, per esempio, l’incontro con la bellezza è visto come una scossa salutare che strappa l’individuo a se stesso, che lo “rapisce”.

Avendo l’uomo – afferma Platone – smarrito la perfezione della sua origine, è ora all’inseguimento perenne della forma primigenia che lo risani. Ricordo e nostalgia lo spingono alla ricerca, e la bellezza lo sottrae all’appagamento della quotidianità. Questo gli causa sofferenza. Potremmo commentare: il dardo della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce, mettendogli così le ali perché possa librarsi verso l’alto. Nel discorso di Aristofane, contenuto nel Simposio, si afferma che gli amanti non sanno ciò che esattamente vogliono l’uno dall’altro; è però evidente che le loro anime sono assetate di qualcosa d’altro che non sia il piacere amoroso. Questo “altro” l’anima non riesce tuttavia ad esprimerlo: “percepisce soltanto vagamente ciò che davvero vuole e lo considera come un enigma”.

Nel XIV secolo, nel suo libro La vita in Cristo, il teologo bizantino Nicolaus Cabasilas (ca. 1320-1391) ripropone l’esperienza platonica, dove l’oggetto ultimo della nostalgia rimane ancora senza nome, benché trasformato dalla visione cristiana: “Esseri umani che nutrono in sé un desiderio tanto possente che supera la loro natura, che bramano più di quanto all’uomo sia lecito attendersi, costoro sono stati feriti dallo Sposo, che ha colpito i loro occhi con un raggio della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela quale sia lo strale, l’intensità del desiderio lascia intuire chi abbia scoccato il dardo”.

La bellezza ferisce, ma proprio in questo modo richiama l’uomo al suo destino ultimo. La riflessione di Platone, e oltre 1500 anni dopo quella di di Cabasilas, non hanno nulla da spartire con l’estetismo superficiale e l’irrazionalismo, con la rinuncia alla chiarezza o alle esigenze della ragione. Bellezza è conoscenza: una forma superiore di conoscenza, in quanto colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Cabasilas rimane interamente “greco”.

Pone infatti la conoscenza al principio: “Sorgente dell’amore è la conoscenza; la conoscenza genera l’amore”. Occasionalmente, la conoscenza potrebbe essere tanto forte da sortire insieme l’effetto d’un filtro d’amore. Cabasilas però, com’è consuetudine del suo pensiero rigoroso, non si limita a parlare in termini generali. Egli distingue due tipi di conoscenza: quella ottenuta attraverso l’istruzione, che rimane, per così dire, conoscenza “di seconda mano” e non implica un contatto diretto con la realtà; diversa, invece, è la conoscenza fornita dalla propria esperienza, attraverso il contatto con le cose. “Fintanto che non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto come dovrebbe essere amato”.

La vera conoscenza, dunque, sta nell’essere colpiti e feriti dal dardo della bellezza, sta nell’essere toccati dalla realtà, “dalla personale presenza di Cristo”, come scrive Cabasilas. L’essere avvinti dalla bellezza di Cristo è conoscenza più reale e profonda della pura deduzione razionale. Ciò non deve far sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero esatto e rigoroso, che rimangono irrinunciabili. Disdegnare o respingere, quale forma di vera conoscenza, il sussulto provocato dall’incontro del cuore con la bellezza, non può che impoverire e rendere infeconda la fede, e anche la teologia. E’ un’urgenza pressante del nostro tempo, il saper rivalutare questa forma di conoscenza.

E’ muovendo da tale visione che Hans Urs Von Balthasar ha organizzato il suo opus magnum di estetica teologica. Molti dettagli della sua ricerca sono entrati nel lavoro teologico, non è però stata ancora recepita l’ispirazione di fondo, che costituisce l’elemento essenziale di tutto l’insieme. Non si tratta soltanto – o principalmente – d’un problema della teologia, ma anche della pastorale, che deve tornare a favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede.
Le tematiche cadono sovente nel vuoto perché troppe argomentazioni appaiono tra loro contrastanti, talchè si fa strada la convinzione, peraltro già formulata dai teologi medioevali, che la ragione abbia “un naso di cera”, visto che basta un po’ di abilità per indirizzarla nelle più svariate direzioni. Tutto sembra così logico, così convincente… Ma allora, di chi ci si deve fidare?

Ebbene, proprio l’incontro con la bellezza può trasformarsi nel colpo di dardo che ferisce l’anima, aprendole gli occhi, cosicché essa – in forza dell’esperienza – acquista validi criteri per esprimere una corretta valutazione.

Resta per me indimenticabile l’esperienza rappresentata dal concerto da musiche di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann.

Quando l’ultimo accordo di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, ci guardammo l’un l’altro e non potemmo fare a meno di commentare: “Ascoltando questa musica si capisce che la fede è vera”. In quelle armonie era presente una così straordinaria forza di realtà, che ormai non più per deduzione razionale, ma attraverso il sussulto del cuore si capiva che tutto quello non poteva avere origine dal nulla, ma nasceva dalla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. Non succede la stesa cosa quando ci commuoviamo ammirando la Trinità di Rublev? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Cabasilas ha preso le mosse dall’interiorità per rendersi visibile e condivisibile.

Pavel N. Evdokimov ha chiarito con grande efficacia il percorso interiore presupposto dall’icona: non è semplicemente l’espressione di qualcosa di percepibile dai sensi, ma piuttosto, com’egli afferma un “digiuno della vista”. La percezione interiore deve liberarsi dalla pura impressione sensibile, per acquisire nella preghiera e nell’ascesi una nuova e più profonda capacità di vedere. Occorre compiere il passaggio del puro esteriore verso la realtà profonda, là dove l’artista coglie ciò che si nega al senso in quanto tale, e tuttavia si mostra nel sensibile: lo splendore della gloria di Dio, la "gloria di Dio sul volto di Cristo" (2 Cor 4,6). La contemplazione delle icone, e in genere dei capolavori dell’arte cristiana, c’introduce in un percorso interiore , che è la via del superamento, e in questa purificazione dello sguardo, che è purificazione del cuore, ci disvela la bellezza, o almeno qualche suo raggio. E la bellezza ci mette in relazione con la forza della verità.

Io ho espresso sovente la mia convinzione che la vera apologia del cristianesimo, ovvero la prova più persuasiva della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i santi, dall’altro la bellezza che la fede è stata capace di generare. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo facilitare a noi stessi e alle persone in cui c’imbattiamo l’incontro con i santi, il contatto con il bello.

Abbiamo già respinto l’obiezione secondo cui ciò che finora è stato sostenuto significherebbe una fuga nell’irrazionale, nel puro estetismo.
E’ vero invece l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e messa in condizione d’agire. Maggior peso però ha un’altra obiezione: il messaggio della bellezza verrebbe messo in dubbio dal prevalere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza pretendere di essere autentica, o alla fine si riduce a pura illusione? La realtà non è forse radicalmente iniqua? Da sempre gli uomini hanno temuto che, alla resa dei conti, non sia affatto lo strale del bello a svelarci la verità, ma che siano piuttosto la menzogna, la bruttezza e il volgare a rappresentare l’autentica “realtà”.

Di recente, da molte parti è stato detto che dopo Auschwitz non sarebbe più possibile fare poesia , né tantomeno parlare di un Dio di bontà. Dove si era nascosto Dio quando funzionavano i forni crematori? Una simile contestazione – per la quale del resto si davano motivi sufficienti, assai prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia – significa, in ogni caso, che un concetto assolutamente armonioso del bello non è sufficiente, non essendo in grado di reggere il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della Verità, della Bellezza. Né può bastare il socratico dio Apollo, considerato da Platone il garante dell’imperturbabile bellezza “veramente divina”.

Non resta dunque che tornare alle “due trombe” della Bibbia da cui avevamo preso le mosse, cioè al paradosso di Cristo, del quale si può dire: "Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo...", ma anche: "Non ha bellezza né apparenza;…un volto sfigurato dal dolore".
Nella passione di Cristo, l’estetica greca – ammirevole per il suo presunto contatto col divino, che tuttavia rimane indicibile – non viene ricuperata, ma è del tutto superata. L’esperinza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo.

Colui che è la “Bellezza in sé” si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la Sacra Sindone di Torino ci racconta tutto ciò in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l’autentica, estrema Bellezza dell’Amore che ama “sino alla fine”, mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l’estrema “affermazione” del mondo.

E’ semplicemente un trucco astuto della menzogna quello di presentarsi come “unica verità”, quasi che al di fuori e al di là di essa non ne esista alcun’altra. Soltanto l’icona del Crocifisso è capace di liberarci da quest’inganno, oggi così prepotente. Ma ad una condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell’Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza.

La menzogna conosce anche un altro stratagemma: la bellezza ingannevole e falsa, quella bellezza che abbaglia e imprigiona gli uomini in se stessa, impedendo loro di aprirsi all’estasi che indirizza verso l’alto. Una bellezza che non risveglia la nostalgia dell’indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé; che alimenta invece la brama e la volontà di dominio, di possesso, di piacere. E’ di questo genere di bellezza che parla la Genesi: Eva vide che il frutto dell’albero era "buono da mangiare e seducente per gli occhi..." (Gn 3.6). La bellezza, così colme la donna la sperimenta, risveglia in lei il desiderio del possesso: la fa come ripiegare su se stessa. Chi non vede, ad esempio, l’abilità estrema con cui la pubblicità fa ricorso alle immagini con lo scopo di risvegliare la brama del possesso, la ricerca del soddisfacimento momentaneo, anziché l’apertura a qualcosa d’altro da sé? Perciò l’arte cristiana si trova oggi (ma forse già da sempre) tra due fuochi: da un lato deve opporsi al culto del brutto, tendente a convincere che ogni bellezza è inganno, e che soltanto la rappresentazione della crudeltà, della bassezza e del volgare sarebbe verità e illuminazione; dall’altro deve contrastare la bellezza menzognera che mira a rendere l’uomo più piccolo, anziché espanderlo nella verità.

Con notevole frequenza udiamo citare Dostoevskij: "La bellezza ci salverà". Ma il più delle volte si dimentica che il grande autore russo pensa alla bellezza redentiva di Cristo. Occorre imparare a “vedere” Cristo. Non basta conoscerlo semplicemente a parole: bisogna lasciarsi colpire dal dardo della sua bellezza paradossale: così avviene la vera conoscenza, attraverso l’incontro personale con la Bellezza della Verità che salva.

E nulla può metterci maggiormente a contatto con la Bellezza di Cristo che il mondo del bello realizzato dalla fede, e la luce che risplende sul volto dei santi: così diventa per noi visibile la sua stessa Luce.

Joseph Ratzinger, "In cammino verso Gesù Cristo", San Paolo 2004

1 commento:

LAURA ha detto...

e' UN LIBRO BELLISSIMNO, MISTICO.LEGGETELO!!!!! I TESTI DEL PASSATO AIUTANO A COMPRENDERE MEGLIO IL LIBRO ATTUALE. RATZINGER è STATO SEMPRE SOMMO. APPENA L'HO INIZIATO A LEGGERE SONO STATA INCNTATA