giovedì 17 marzo 2011

A colloquio con Ernesto Galli della Loggia sull'identità italiana. E i Cattolici diventarono i difensori dell'unità (Silvia Guidi)

A colloquio con Ernesto Galli della Loggia sull'identità italiana

E i cattolici diventarono i difensori dell'unità

di Silvia Guidi

«Se l'espressione non ricordasse sgradevolmente altre ridicole e millantate progeniture (è chiaro a quali altri celebri “figli” della storia italiana del Novecento sto pensando) io e quelli della mia generazione potremmo davvero dirci “figli della Repubblica”». Nella postfazione a L'identità italiana -- ripubblicato insieme a Cavour di Luciano Cafagna La donazione di Costantino del nostro direttore alla vigilia delle celebrazioni per i 150 anni dell'unità nazionale (per festeggiare l'anniversario la casa editrice Il Mulino presenta anche i primi trenta titoli della collana «L'identità italiana» in versione digitale) -- Ernesto Galli della Loggia rischia la prima persona singolare, inconsueta in uno storico; il titolo del capitolo aggiunto all'ultima ristampa L'identità di un italiano, indica esplicitamente che in questo caso il campione statistico esaminato coincide con l'autore stesso.

All'analisi più strettamente scientifica dedicata agli aspetti geografici e storici dello Stivale, ottenuta intrecciando molti fili diversi -- il paesaggio e il quadro ambientale, l'eredità latina e il retaggio cristiano cattolico, il policentrismo urbano e regionale, il familismo e l'invadenza della politica -- si aggiunge un racconto autobiografico che «vuole essere una sorta di ricerca personale dei modi concreti, ma anche dei pensieri, delle emozioni, insomma dei più vari tramiti attraverso cui un italiano, nato più o meno all'alba della Repubblica, ha vissuto in tutti questi decenni l'appartenenza al proprio Paese, in che modo egli si è sentito (o non sentito) italiano».

Frutto di una vicenda millenaria, ricca di prestiti e di contaminazioni, l'identità italiana è tuttora percepita come fragile e non ha saputo tradurre nelle forme della modernità un'idea unitaria del Paese; su questo tema, la «storia confidenziale» dell'Italia della seconda metà del Novecento tracciata dall'autore nelle pagine conclusive cede il passo alla cronaca di una delusione: «La mia generazione, mentre si schierava dalla parte delle res novae, ha però fatto ancora in tempo a sentire l'insieme di questo lascito del passato come il fondo decisivo, vivo e pulsante della propria identità. Abbiamo voluto scommettere, e abbiamo sperato, che anche nel futuro avrebbe potuto continuare a essere così. Apparentemente l'esito della scommessa è ancora incerto. Ma via via che passano i giorni la speranza diventa sempre più tenue e il passato sembra prendere il colore evanescente del superfluo, consegnandoci solo a un grigio presente».

Anche la Chiesa percepisce questo scollamento, questo processo di disaggregazione, di disunione, di paura, di mancanza di speranza in un momento in cui «un disperato qualunquismo», per dirla con Galli della Loggia («Corriere della Sera» del 30 dicembre scorso) è il chiaro sintomo di una disaffezione dalla politica, dal Paese, dalle istituzioni pubbliche avvertite a una distanza siderale rispetto alla realtà. Senza scomodare la società liquida di Bauman è evidente a tutti che lo spirito di unità, di condivisione di un comune destino, si è fatto tenue.

La Chiesa vuole, oggi, tenere unito un popolo perché lo considera un valore, una vittoria sugli egoismi e sulle barriere, e ciò indipendentemente dal giudizio sulle modalità storiche con cui si è realizzata l'unità italiana e «mostra -- scriveva ancorasul «Corriere della Sera» del primo dicembre scorso Aldo Cazzullo -- un approccio sereno a fatti laceranti che richiederebbero qualche revisione sul fronte laico. Sono molti i segni dell'attenzione ai 150 anni: un convegno della Conferenza episcopale italiana, il segretario di Stato nel settembre scorso a Porta Pia, per la prima volta dal 1870, il dibattito in corso sui giornali cattolici. Paradossalmente a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa».

Solo una battuta brillante o un'affermazione che contiene anche una parte di verità?

Penso che questa affermazione sia vera ma soltanto dal punto di vista politico. L'interesse per il Risorgimento credo sia più o meno equamente distribuito oggi tra tutte le persone che hanno un minimo di interesse per le cose pubbliche del Paese. Quello che è vero è che oggi i cattolici sono diventati i fautori più determinati dell'unità d'Italia, questo sì, dopo esserne stati non dico i nemici più accaniti, ma essere stati comunque all'opposizione, il gruppo sociale più ostile, insieme ovviamente a quelli che appoggiavano la vecchia monarchia preunitaria, oggi sono invece diventati i più determinati nell'appoggiare l'unità, nel riconoscere nell'unità nazionale un valore. C'è stato un grande spostamento negli ultimi decenni nel rapporto tra gli italiani e il Risorgimento e non solo, anche tra gli italiani e il sentimento patriottico-nazionale, le due cose sono molto accoppiate, negli ultimi tempi c'è stato un ingresso a vele spiegate nel fronte dei filo-risorgimentali e dei filo-italiani della sinistra che fino a qualche tempo fa manteneva delle riserve o comunque una distanza psicologica e sentimentale nei confronti di tutta la vicenda risorgimentale, in cui oggi invece si riconosce in pieno; viceversa nella destra c'è la creazione di una grande fetta di opinione pubblica polemica verso il Risorgimento e l'unità nazionale. I cattolici dal momento della conciliazione e poi dall'arrivo al potere nel 1945 si sono pienamente riconosciuti nell'unità nazionale, e quindi per forza nel Risorgimento; e ancora di più questa identificazione si è accresciuta con la comparsa sulla scena politica italiana della Lega.

Il disincanto -- scrive Massimo Borghesi su Ilsussidiario.net -- ha ucciso la retorica nazionale ma ne ha creato un'altra, celebrando al posto di questa, la «disunione» d'Italia.

Sicuramente nulla come l'esistenza di una cosa chiamata Stato italiano ha contribuito al fatto che gli italiani in un secolo e mezzo si siano alimentati meglio, abbiano abitato in case più confortevoli, abbiano avuto un'istruzione migliore, abbiano potuto crescere in ricchezza, e così via, lo Stato italiano è stato un grande promotore dello sviluppo economico, oggi tutto questo appare abbastanza dimenticato, colpevolmente dimenticato anche perché negli ultimi trent'anni il Risorgimento, l'unità nazionale, insomma tutto questo processo storico è stato sostanzialmente messo da parte nei programmi scolastici, non ha avuto grande spazio, poi perché sono ricomparse una serie di tensioni divisive e l'immigrazione che hanno ridato spazio a tutte le divisioni storiche del Paese: prima il nord contro il sud e poi il sud contro il nord, in una sorta di nostalgia borbonica anti-italiana, penso soprattutto a Terroni di Pino Aprile, tra i libri più venduti negli ultimi mesi, un atto di accusa violentissimo e infarcito di inesattezze e di dati sbagliati contro l'unificazione italiana sul tema del Mezzogiorno povero angariato e oppresso; è vero che fa sempre più notizia ciò che è negativo rispetto a ciò che è positivo: diciamo che negli ultimi trent'anni ha fatto sempre più notizia quello che era negativo dell'Italia, quello che non funzionava; cose che sono tutte vere naturalmente, ma tutto il resto non ha fatto notizia, è stato cancellato in qualche modo dalla memoria, e quindi gli effetti si vedono oggi.

Lei ha accusato più volte questa storiografia di un errore di metodo: scambiare i «giocattoli del re» per un indice di sviluppo.

Aprile sostiene che il regno di Napoli era la terza potenza industriale d'europa; molte delle «prove» di queste affermazioni sono dati reali mitizzati o fraintesi. Qualche esempio: le fabbriche di tessuti di San Leucio, vicino a Caserta, che producevano tessuti molto pregiati, erano tutte attività finanziate dal re e dalla casa reale per l'arredamento dei propri palazzi, così come le fabbriche di porcellana di Capodimonte; non è che ci fosse un mercato in Italia o nel regno del sud delle stoffe di San Leucio né dei prodotti di Capodimonte: erano fabbriche reali che servivano per la corte; il sud versava in condizioni economiche di arretratezza, anche rispetto a quei tempi. Sono cose che vengono completamente cancellate e dimenticate da questa moda di nostalgismo filo-sudista.

Il desiderio di riappropriarsi della propria storia, di per sé legittimo, se diventa ideologia porta a mitizzare dei particolari.

Non vedendo invece le cose generali. Una per tutte: la Lombardia da sola aveva più strade di tutto il regno del sud. Pensare a uno sviluppo economico senza strade è un po' difficile. Il tasso di analfabetismo dell'Italia meridionale era tra il 70 e il 90 per cento, in Sicilia il dieci per cento sì e no della popolazione sapeva leggere e scrivere (e nella popolazione femminile soltanto le donne dell'aristocrazia); nel nord invece il tasso di analfabetismo nel Lombardo-Veneto era tra il 40 e il 50 per cento, molto di meno. Ancora più forte era il dislivello tra le città, tra Milano e Napoli per esempio. I dati sono questi, e non vengono contestati, solo non vengono ricordati. Al loro posto viene citata la Napoli-Portici. Nessuno se lo chiede mai, ma a cosa servivano otto chilometri di ferrovia fra Napoli e Portici? Mentre la Torino-Genova fatta da Cavour serviva a molto, per il trasporto di merci, la Napoli-Portici non significava niente dal punto di vista commerciale, non esisteva neanche un traffico di viaggiatori. Era una grande novità la ferrovia, e il re di Napoli aveva voluto provare com'era andare in treno, le sensazioni che si provavano a bordo, viaggiando dalla sua residenza nella capitale alla villa fuori città.

«Un film riuscito proprio perché nessuno credeva che sarebbe mai stato girato»; Luciano Cafagna descrive così il miracolo politico dell'unità italiana, vedendo in Cavour il regista di un'opera riuscita quasi per caso.

È un paradosso intelligente, e come tale nasconde una verità. Nessuno avrebbe mai scommesso molto su un progetto del genere perché la quantità e la qualità dei fattori contrastanti erano molto superiori alla quantità e la qualità dei fattori a favore, eppure, miracolosamente, è il caso di dire, il progetto unitario riuscì, grazie soprattutto a Cavour, come Cafagna spiega molto bene. L'unità come un film che non si sa come fare a girare, ma viene girato perché ci fu un fortissimo elemento di improvvisazione e di casualità nella costruzione dell'Italia: su questo non ci sono dubbi. Cavour seppe sfruttare degli errori che l'Austria avrebbe potuto benissimo non fare, come l'ultimatum al Piemonte che dette il pretesto al conte di iniziare la seconda guerra di indipendenza (anticipazione dell'errore fatto con l'ultimatum alla Serbia intimato nel 1914 da Francesco Giuseppe dopo l'uccisione dell'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo). C'è un elemento di casualità e di fortuna, perché le cose potevano andare diversamente e prendere una piega imprevista. Tutti questi elementi nel libro di Cafagna sono messi molto in evidenza, viene descritta la decisiva dimensione politica, l'invenzione politica quasi giorno per giorno dovuta al genio di un uomo. Sicuramente il Risorgimento è la dimostrazione del ruolo della personalità, dell'individuo nella storia; se non ci fosse stata una persona dell'abilità, della spregiudicatezza, dell'intelligenza di Cavour non so se si sarebbe potuta fare l'unità d'Italia, e anche se non ci fosse stato un uomo come Garibaldi. La personalità del singolo conta nella storia, conta, eccome. Anzi, forse questo è stato un male perché ha lasciato una specie di dna nella storia italiana, un po' di culto eccessivo dell'uomo nella storia politica, l'idea che l'uomo geniale, lo statista di piglio può risolvere le situazioni più complicate, cosa che spesso ha prodotto effetti rovinosi.

Nel suo libro analizza le mille differenze del «policentrismo» italiano. Che cosa può contribuire di più a rinsaldare il senso di un'appartenenza comune?

Per rispondere a questa domanda servirebbe la sfera di cristallo; è un po' come cercare la mappa per l'Eldorado. Comunque più che far appello a qualche fattore concreto, servirebbe qualcuno -- un partito o qualcosa di simile -- che spiegasse agli italiani i vantaggi che hanno avuto a essere riuniti e continuano ad avere e il disastro che sarebbe il dividersi. Qualcuno che facesse riflettere più su dati di realtà di natura storica, che non vengono tenuti in considerazione, da mettere in campo per rinsaldare l'unità. A parte questi fattori di tipo ideologico culturale, penso che ci siano dei dati che producono un'immagine del sud come qualcosa di diversamente affidabile; qualunque battaglia contro la delinquenza organizzata per spazzare via questo fenomeno rinsalda l'unità del Paese, qualsiasi miglioramento delle condizioni civili del Mezzogiorno, da quello delle città a quello delle comunicazioni, è una cosa che gioca a favore dell'unità del Paese perché diminuisce la divisione che c'è, divisione di percezioni culturali e divisioni anche concrete naturalmente, è soprattutto sul terreno della cultura civica e della legalità che l'unità d'Italia si può oggi rinsaldare, perché è su questi punti che si sono prodotte le diversità maggiori.

«Io non mi sento italiano ma per fortuna o purtroppo lo sono» cantava Gaber. Gli italiani hanno un'ambivalente percezione di sé, che va dalla facile autodenigrazione all'orgoglio; «all'italiana» è un modo di dire inventato dagli stessi italiani per designare quel misto di pressappochismo e di insufficienza con cui si affrontano le emergenze o si organizza l'ordinario.

Quest'ambivalenza non esiste forse un po' in tutti i Paesi? Siamo sicuri che non abbiano anche loro questa ambivalenza, che i francesi, a esempio non dicano talvolta: la Francia è il più bel Paese del mondo ma qualche volta dovremmo essere come i tedeschi? In certe occasioni storiche l'hanno detto, per esempio nel 1870 dopo Sedan ci fu una grande corrente culturale in Francia. Faccio un nome per tutti: Ernest Renan pensò che quella sconfitta militare era anche il sintomo di un ritardo complessivo della Francia in molti campi e che bisognava imitare la Germania. Certo, a livelli molto alti e non di chiacchiera da bar, comunque fu un discorso che penetrò profondamente nell'opinione pubblica, che la Francia era in ritardo e bisognava rimettersi in carreggiata e «gli altri erano meglio». Gli italiani nella percezione di sé hanno un problema storico, sanno di aver avuto un grandissimo passato; più o meno loro, poi, perché è discutibile che il passato della Roma antica sia un passato italiano, si possono muovere ragionevoli obiezioni a questa filiazione, ma comunque sono cose che sono avvenute in Italia e hanno lasciato tracce sulla nostra vita, sul paesaggio e così via. Quindi da un lato sanno di avere questo glorioso passato alle spalle -- magari non è il loro, ma comunque è alle loro spalle -- e per almeno tre, quattro secoli hanno poi dovuto misurare che dal punto di vista politico e sociale contavano poco o niente, e questo forse ha prodotto questo doppio registro di percezione di sé. Poi possono esserci tanti altri fattori, ma probabilmente in noi parla la mentalità del nobile decaduto.

Nel recente film di Martone Noi credevamo la visione è quella di un Risorgimento senza eroi, cupo, dominato dal fanatismo nazionaltotalitario di Mazzini. Una stesso desiderio di smascherare «di che lacrime gronda e di che sangue» quest'epoca muove lo storico Alberto Mario Banti, che avanza dubbi «sulla opportunità di continuare a cercare nel Risorgimento il mito fondativo della nostra attuale Repubblica”».

Nell'analisi di Banti c'è una totale cancellazione del Risorgimento come fatto politico; non c'è Cavour, non c'è la politica. Il che è una cosa che forse corrisponde allo stato d'animo presente degli italiani che non ne possono più, hanno schifo della politica, la disprezzano. Dal punto di vista storico si tratta di una notevole...

Ingenuità?

Non ingenuità, contraffazione della realtà delle cose. C'è stato innanzitutto un processo guidato politicamente con un fortissimo investimento nella politica come spiega il libro di Cafagna, senza la politica non si sarebbe potuto realizzare. C'è invece un affollarsi di analisi di personaggi, sentimenti, situazioni che vengono troppo avulsi dal proprio contesto e a cui viene data troppa centralità. Non si può giudicare il passato con gli occhiali di oggi. Banti vorrebbe che ci dissociassimo dal Risorgimento perché aveva modelli di comportamento e di idee con i quali non ci possiamo riconoscere, ma con questo criterio tutti dovrebbero dissociarsi dal loro passato nazionale. I francesi non si possono riconoscere in una rivoluzione francese che aveva la ghigliottina e le stragi di settembre, che decapitava innocenti a migliaia, che ha fatto la Vandea. Se uno dicesse polemicamente «ma allora voi vi riconoscete in questo?» chi potrebbe dire «sì, mi riconosco nello sterminio dei vandeani?». Gli inglesi si possono riconoscere nelle stragi che alla metà del Settecento il regno di Inghilterra fece degli scozzesi e degli irlandesi? Tutti i passaggi nazionali sono cosparsi di sangue, di uccisioni, di oppressioni e la storia è un banco di macelleria, come diceva Hegel. Tutte le storie, la storia delle nazioni, ma anche la storia dei movimenti politici che non sono stati nazionali. Da questo a dire che allora noi non ci possiamo riconoscere nel linguaggio dell'inno d'Italia, nel virilismo che anima tutta la prosa risorgimentale, come sicuramente lo animava, come la prosa di tutto il nazionalismo di tutti i Paesi europei -- non ce ne è stato uno in cui non ci fosse questo virilismo patriottico -- è una notevole ingenuità nel lavoro di uno storico di professione. È la stessa operazione dei «sudisti» che per trovare una giustificazione alla situazione attuale dell'Italia meridionale invocano il passato. Sono due usi del passato assolutamente impropri e strumentali, uno per giustificare l'oggi, l'altro per dissociare l'oggi dallo ieri e affermare che esistiamo, che siamo italiani solo perché possiamo riconoscerci nella Costituzione italiana. Siamo italiani per moltissime altre ragioni, tra cui il fatto che c'è uno Stato che si chiama Italia ed è stato fondato durante il Risorgimento.

Quali piste di ricerca consiglierebbe a un giovane studioso interessato al tema della nascita dell'Italia?

Non tanto di occuparsi del Risorgimento, super scandagliato da decenni, quanto di investigare il dopo. Le cose più interessanti possono venir fuori da studi sul periodo immediatamente successivo all'unità, per esempio l'incontro del nord con il sud. Posto che gli storici quando studiano il passato sono mossi da interessi contemporanei, oggi a me piacerebbe molto leggere dei libri di ricerche che mettano in luce quali sono stati i problemi, le reazioni, gli stati d'animo di coloro che concretamente hanno prodotto l'incontro del nord con il sud: gli impiegati che sono andati al sud dal nord, il prefetto toscano che porta la famiglia dove lavora, il tenente dei carabinieri che viene dalla Lombardia, come è avvenuto nei piccoli crogiuoli della quotidianità locale quest'incontro, con la nascita di quali sentimenti, di quali opinioni, di quali percezioni, di quali tensioni. Alcune cose sono già state pubblicate; ci sono testi interessantissimi sui professori che andavano nei licei del sud, spaccati delle società dell'epoca che possono fornire materiale prezioso; lavorerei su questo filone di ricerca.

(©L'Osservatore Romano 17 marzo 2011)

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