giovedì 28 luglio 2011

Festa di Avvenire. «Amore nella Verità… no all’omologazione». Omelia del Vescovo nella S. Messa della giornata sacerdotale

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

Festa di Avvenire

«Amore nella Verità… no all’omologazione»

Lerici, 27 luglio 2011

Omelia del Vescovo nella S. Messa della giornata sacerdotale

Il tema, o titolo, della 36ª festa di Avvenire: «Amore nella verità… no all’omologazione» pone innanzi a noi le due parole amore e verità che, da sempre, nella tradizione cristiana occupano una posizione centrale e fondante in rapporto ad altre realtà umane e cristiane che da esse dipendono e traggono il loro significato. Oggi queste due parole - amore e verità - godono d’un diverso tipo di gradimento da parte del comune modo di sentire degli uomini e anche all’interno della stessa comunità ecclesiale. Di fatto, risentono di una lettura che è condizionata da un clima culturale segnato sempre più dal relativismo, per cui tutto, alla fine, viene consegnato al sentimento che assurge a vero e proprio principio interpretativo; quindi un nuovo criterio di verità che sottopone tutto e tutti al vaglio dell’emotività e del senso comune.
Ci soffermeremo, poi, sul terzo sostantivo che, insieme ai due appena citati, verità e amore, concorre a delineare il tema, o titolo, della 36ª festa di Avvenire. E’ il termine omologazione, preceduto dalla particella negativa no; vedremo meglio in seguito.
Anche all’interno della comunità ecclesiale - come già accennato -, si dà un diffuso modo di sentire per cui in ambito teologico e filosofico, spirituale e pastorale, esistono concetti, argomentazioni, temi e anche parole verso cui si nutre, spontaneamente, una sorta di benevola accoglienza; al contrario vi sono concetti, argomentazioni, temi e anche parole verso cui si nutre un immediato sospetto, quasi un’avversione spontanea.
Nel primo elenco - quello positivo -, si deve inscrivere ovviamente la parola amore; invece, nel secondo - quello negativo - la parola verità; quest’operazione, ovviamente è, in sé, discutibile, e partecipa di quell’emotività pregiudiziale di cui si è detto; tra l’altro, con una tale operazione, si dimentica - particolare non di poco conto -, che entrambi i termini, amore e verità appartengono alla Rivelazione e che, con i limiti propri del linguaggio umano e prima ancora della logica umana, concorrono humano modo a “dire” Dio e a esprimerne la realtà del mistero e tratteggiarne il rapporto con Lui.
Come ricorda l’apostolo Giovanni nella prima lettera: «Dio è amore» (1Gv 4, 8.16); allo stesso modo, alla fine del quarto vangelo, Giovanni riporta il dialogo tra Gesù e Pietro, colloquio in cui il Risorto, sulla riva del mare di Tiberiade, chiede all’apostolo - prima di confermarlo nel primato - se lo ama (cfr. Gv 21, 15-18); i verbi qui usati sono: agapao (agapào) e fileo (filèo). Inoltre, il vangelo di Matteo dà notizia, attraverso una narrazione realista, ricca di immagini, che la vita si concluderà con un giudizio e che tale giudizio riguarderà tutta l’esistenza e consisterà in un puntuale e diligente esame sull’amore: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25, 35-36).
Non dobbiamo, però, dimenticare che lo stesso apostolo Giovanni, nel prologo del quarto vangelo, si esprime con queste parole: «In principio era il Verbo (logos, logos), e il Verbo (logos, logos) era presso Dio e il Verbo (logos, logos) era Dio» (Gv 1, 1). In tal modo siamo informati del fatto che Dio è amore ma, allo stesso tempo, che é logos, ossia, Parola nel senso di pensiero, ragione, senso, sapienza, progetto, quindi verità.
Inoltre l’apostolo Paolo, nel primo capitolo della lettera ai Romani, riprendendo la tradizione sapienziale veterotestamentaria - in particolare il libro della Sapienza (capitolo 13) - afferma, in maniera inequivocabile, che, proprio attraverso un ragionamento vero, ossia capace di verità, è possibile accedere a Dio come al fondamento di tutto il reale. Ecco il testo: «le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità - afferma Paolo -, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rm 1, 20). Gesù stesso, parlando di sé e dei legami che lo uniscono al Padre e ai discepoli, si serve della parola verità. Così può dire: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30) e ancora: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6) e infine: «Se rimanete nella mia parola… conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8, 32). Gesù, quindi, non ha timore di parlare di sé, del Padre e dei discepoli servendosi della parola verità.
L’apostolo Paolo, inoltre, nella prima lettera ai Corinzi unisce verità e amore/carità e afferma che l’amore/carità si compiace della verità (cfr. 1Cor 13, 6), mentre, nella lettera agli Efesini, chiede ai fedeli di dire/vivere la verità nell’amore/carità (cfr. Ef 4, 15). In questi due testi dell’epistolario paolino, amore e verità non sono realtà conflittuali, nemmeno estranee l’una all’altra; al contrario è proprio dal loro legame che l’una si compie nell’altra e viceversa; Paolo è chiaro: l’amore/carità si compiace della verità; nello stesso tempo è necessario dire/ vivere la verità nell’amore/carità.
Invece in ambito ecclesiale - non di rado -, si percepisce una sorta di imbarazzo nei confronti della parola verità, che da taluni sembra essere pronunciata a fatica e chiamata in causa il minimo indispensabile delle volte. Ciò è in stridente contrasto con la costante tradizione della Chiesa, a partire sia dalla Sacra Scrittura - Antico e Nuovo Testamento -, passando attraverso l’epoca patristica, la grande teologia medioevale, la mistica, per arrivare al Concilio Vaticano II e al magistero a esso successivo; pensiamo, ad esempio, alle encicliche Fides et ratio, Evangelium vitæ, Veritatis splendor.
E così giungiamo al magistero di Benedetto XVI, nel quale la parola verità trova un posto centrale e vi ricorre frequentemente, con l’intenzione evidente di ristabilire un equilibrio linguistico, concettuale e dottrinale di cui - al vero, si sentiva l’urgenza. A questo punto é logico chiedersi: perché il termine verità - alla fine - è così difficile da accettarsi? Quale ne é il motivo? Intanto abbiamo visto come la rivelazione cristiana non ignori il termine verità ma, al contrario, lo consideri essenziale, unitamente al termine amore, e questo tanto per parlare di Dio, quanto della vita cristiana che, poi, è essenzialmente il riverbero stesso di Dio e della sua vita nella creatura filiale; pensiamo qui, semplicemente, alla realtà simbolica del matrimonio cristiano: Dio/popolo, Cristo/Chiesa, sposo/sposa.
Ritorniamo, ora, al tema o titolo della festa di Avvenire: «Amore nella verità… no all’omologazione». Abbiamo visto - alla luce della rivelazione cristiana -, che é arbitrario polarizzarsi su uno dei due termini e, ancor più, escluderne uno: nel caso, ovviamente, il termine verità. Una breve considerazione, ora, sul no che il nostro tema riserva all’omologazione. Nel Nuovo Testamento sono diversi i modi in cui il termine omologazione é presente, al di là dell’espressione letterale; ne evidenziamo alcuni.
Si tratta di affermazioni o insegnamenti o dialoghi in cui Gesù prende le distanze da tutto ciò che, direttamente o indirettamente, può ricondurre ad atteggiamenti d’omologazione e a quello che esso può indicare. Così, subito dopo le beatitudini, l’evangelista Matteo ricorda come Gesù ammonisca i discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5, 13). Che poi Gesù rifugga da qualsiasi gesto che, anche solo lontanamente, possa sembrare omologazione, ossia appiattimento sui giudizi del mondo e degli uomini, risulta con evidenza quando innanzi alla domanda che egli stesso pone ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (Mt 16, 13), si mostra non interessato alle risposte degli uomini. E, rompendo ogni indugio, dà ai suoi discepoli - quelli presenti e quelli futuri -, un’indicazione di metodo decisa e precisa. Indicazione che i discepoli dovranno far propria, in spirito di fedeltà alla parola di Gesù, e che riguarda l’impegno della testimonianza diretta con il conseguente, necessario e doveroso rischio d’assunzione di responsabilità personale; quindi Gesù mai finge di non vedere o di non sentire, al contrario, insiste e domanda ai suoi discepoli con ancora maggiore forza e chiede loro: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16, 15).
E’ la stessa logica che Gesù esprime al termine del discorso eucaristico, presso la sinagoga di Cafarnao, quando, di fronte alla crescente defezione di coloro che lo seguono - il vangelo, infatti, annota: «da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui» (Gv 6, 66) -, Gesù ci addita uno stile profondamente differente dal nostro e, rivolto direttamente ai Dodici, li interroga: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6, 67).
In conclusione, il Nuovo Testamento compimento dell’Antico - ma é più corretto dire lo stesso Gesù -, ci hanno indicato cosa significhi «Amore nella verità… no all’omologazione» e ancora quanto un tale progetto sia rispondente all’anima stessa dell’Evangelo cristiano di sempre e, soprattutto, di oggi!

X Francesco Moraglia

Vescovo

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